L'Amletico

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"Rolling Thunder Revue, A Bob Dylan Story": Dylan, Scorsese E Il Grande Imbroglio. No Fun.

“Ever get the feeling you've been cheated?" – Johnny Rotten, nel suo ultimo concerto con i Sex Pistols

In una delle prime interviste radio, nel 1961, un appena ventenne Bob Dylan, per promuovere un suo show alla Carnegie Chapter Hall, raccontava la sua storia personale, tutto il percorso di vita che lo aveva portato a New York per scrivere un album: nato a Duluth, era poi cresciuto a Gallup nel New Mexico, dove si era imbevuto di canzoni da cowboy e indiane, imparandole grazie agli anni trascorsi con il circo itinerante, dove aveva vissuto dai 13 ai 19 anni. Peccato che fosse tutto falso e inventato di sana pianta. Una biografia inventata per creare quell’alone di mistero e alterità intorno al suo personaggio.

La sua storia personale l’avrebbe infatti raccontata in prima persona in una famosa biografia, Chronicles Vol.1, oltre quarant’anni dopo: l’arrivo a New York, il periodo di transito dai ’60 ai ’70, la realizzazione dell’album “Oh, mercy”. Peccato che, anche questo, sia inventato. O meglio: sicuramente parte del contenuto biografico è vero, ma certamente non attendibile, se non vogliamo credere come Bob riesca a ricordarsi per filo e per segno interi dialoghi, momenti in studio, articoli di giornale letti – con annesse reazioni di disgusto – a distanza di diversi decenni.

Ma questo ci sta, va bene. È il limite, e quindi la bellezza, dell’autobiografia: il racconto in prima persona va considerato vero e attendibile, sospendendo il giudizio, perché non è importante la vita della persona, quanto quello che il personaggio compie.

Qual è la persona, quale il personaggio? Chi è davvero Bob Dylan? Questo è quello che ogni fan si domanda quando attraversa l’opera di Dylan. Non a caso, l’etimologia della parola “persona” non ci trae in inganno: “maschera”, quella indossata dagli attori teatrali “per (far ri)suonare” la voce. Maschera e voce, strettamente collegate l’uno con l’altra.

Ha colto benissimo questo aspetto il film di Todd Haynes “I’m not there”, che invece di provare a ricostruire la vita di Bob Dylan inventa sei personaggi diversi, tutti e nessuno realmente Bob Dylan: bambini, donne, giovani e anziani, bianchi e neri, musicisti e delinquenti, attori e predicatori. Una perfetta mimesi del reale – verosimile ma non per forza vera – capace di proiettare un’ombra che ha i contorni del vero Dylan.

Vero? Ma qual è il vero Dylan? Quello che canta le canzoni? O quello che vince il Premio Nobel, l’Oscar, il Pulitzer? Quello che si sposa in segreto con la sua corista e mette al mondo una figlia mulatta che nessuno conosce? Quello che – forse – ha fatto un incidente di moto e magari è morto davvero? Il predicatore con la chitarra acustica o il poeta beat dietro i Wayfarer? O forse quello con la biacca in faccia e il cappello da cowboy adornato di fiori della Rolling Thunder Revue?

Ecco, la Rolling Thunder Revue (e qui arriviamo al centro del discorso, scusate). Forse il festival più folle, velleitario, romantico, disincantato, sconclusionato della Storia della Musica. Un carrozzone con dentro Joan Baez, Roger McGuinn, Allen Ginsberg, Joni Mitchell, Mick Ronson, T-bone Burnett più una serie infinita di ospiti, musicisti, cantanti, gregari. E ovviamente lui, Dylan, che provava a nascondersi dietro la maschera, dietro il cerone, e nessuna delle due che durava più di qualche canzone. Sul palco insieme agli altri, confuso tra l’orchestrina elettrica dei Guam a urlare (più che cantare) pezzi nuovi e vecchi, ma comunque irriconoscibili la maggior parte del tempo (come la adesso convertita in marcia “A hard rain is a-gonna fall”, per dirne una).

Quei pochi mesi sono – per chi ama Dylan – leggendari: Bob è al massimo della forma, come mai più sarà dopo, le canzoni di quegli anni sono forse le più belle che ha scritto e tutta la Revue respira un’aria naif e circense, forse quella che lui stesso immaginava in una delle sue vite inventate.

Il 12 giugno 2019 è uscito su Netflix il film “Rolling Thunder Revue: a Bob Dylan story”. Opera di Martin Scorsese che il decennio precedente aveva realizzato il bellissimo e imprescindibile “No direction home”, sul biennio 1965-66, l’ascesa e il collasso del Dylan elettrico. “No direction home” raccontava dal di dentro un periodo storico capace di creare e distruggere i miti, quando il rock era giovane e il Mondo aveva bisogno di eroi e di martiri. Scorsese è fenomenale nel trasmettere l’euforia e il malessere di quel momento, quando un ragazzo di circa 24 anni viene fischiato da un pubblico che non vuole capirlo. E che a quel pubblico risponde: tu sei un bugiardo.

Scorsese si avvicina di nuovo a Dylan, raccontando l’altro tour leggendario, quello della Rolling Thunder Revue. Certo, c’è da dire che la Revue era già stata raccontata – benissimo – da Larry “Ratso” Sloman, che in quel tour bene o male c’è stato sempre. Per cui il documentario, ahem, il film, attraversa quei mesi con un taglio trasversale, omettendo tantissimi dettagli e storie: nessun riferimento a Mick Ronson, Jacques Levy appena accennato, Sara Dylan un fantasma innominabile, “Renaldo & Clara” mostrato in qualche spezzone ma mai affrontato. Molto strano, in effetti. Che strana scelta quella di omettere i punti focali di una storia complessa e contorta come quella della Revue – Sara Dylan e Joan Baez nei panni di due donne che si contendono Renaldo, proprio mentre il matrimonio di Dylan cade a pezzi, nonostante una struggente canzone speri nel contrario.

Però non mancano i dettagli curiosi, le chicche segrete di una storia che ha tanto ancora da raccontare: il regista Van Dorp che ci mostra l’altro lato del tour e del film; Sharon Stone che incontra Dylan con una maglia dei Kiss e lo spinge ad andare a sentirli (che forse il trucco in faccia sia un omaggio/furto a loro?); un senatore che si avvicina alla Revue utilizzando il futuro Presidente Carter; il resoconto del disastro finanziario del promoter Gianopulos…

Peccato che sia tutto falso e inventato di sana pianta. Van Dorp non esiste, così come il Senatore Tanner. Sharon Stone non ha mai fatto parte del tour (davvero, Dylan che va a vedere i Kiss e ne ruba il trucco?) e Gianopulos non ha mai fatto da promoter all’evento.

Sì, il film non è un documentario. O meglio, non del tutto. C’è la verità fattuale e il racconto di fantasia – fomentato dallo stesso Dylan che sta al gioco e regge la parte arricchendola di dettagli e aneddoti. Tutto frullato e sovrapposto. Ed è qui che il divertimento finisce. No fun.

Le storie inventate da Dylan, su Dylan, servivano e servono per darci in pasto una maschera, quel prodotto artistico che sappiamo riconoscere e disegnare ad occhi chiusi. Ma perché aggiungere questi dettagli a un’opera che non ne aveva bisogno? Non si parla di piccole cose (forse solo quella di Tanner), ma di intere porzioni di film… false. Perché?

Penso che sia davvero scorretto nei confronti degli spettatori. Non si può sfuggire dalla sospensione dell’incredulità perché non ha senso che quello raccontato non vada preso per vero. Non devo per forza conoscere ogni minuto della vita di Dylan per capire quando mi si sta prendendo in giro. A che scopo truffare lo spettatore, senza dargli neanche la possibilità di decifrare il gioco dietro, svelarne l’arcano e sentirsi complice della bugia, nascosta ma non invisibile? In questa maniera, il processo non è diverso dalle fake news che tanto avvelenano il nostro mondo: dire qualcosa di verosimile, tanto che non sia possibile negarlo senza che si prenda una laurea in… Dylanologia.

Il risultato è un film che ci mostra materiale incredibilmente di valore – interi dialoghi ed esibizioni dal vivo di inestimabile bellezza, come la jam tra la Mitchell, Dylan e McGuinn su Coyote o il confronto umano Baez/Dylan – insieme a interviste, false, costruite, che tolgono più che aggiungere. Due ore di film che suggeriscono qualcosa, ma non provano a raccontarlo: lo accennano e ne mostrano i contorni, ma sfocano la figura, omettendo la vera storia (ma qual è poi) in favore di una falsa storia, più brutta e vuota dell’originale.

Credo che ormai Bob Dylan sia davvero prigioniero di se stesso. Del suo personaggio. Ormai è impossibile provare a raccontarlo senza che si scada per forza di cose in un processo di dylanizzazione del racconto. Che è lecito, e il film di Haynes ne è la prova, ed è artistico se a farlo è il diretto interessato. Ma che è semplicemente inutile se il tentativo viene dall’esterno, ed è riferito a un periodo artistico particolare, non puramente mainstream (non stiamo certo parlando del Dylan di “Like a rolling stone” per dire) e l’enigma non viene palesato.

C’è un modo di dire inglese: “you can’t gild the lily”. Non puoi dorare il giglio. Non puoi rendere più bello qualcosa di già bello. La Rolling Thunder Revue non aveva bisogno di questa sovrapposizione di vero e falso. Meglio allora una storia del tutto inventata, da zero.

Meglio Dylan che invece di fare un tour come un circo, vive in un circo per sei anni. Immaginatelo: tutti attori, tutto scritto, parola per parola, un copione recitato talmente bene da diventare un mockumentary con Dylan artefice di tutto, idea geniale che sovverte la realtà e pone quell’esperienza della Revue come un gigantesco coupe de théâtre, ultimo effetto visibile, ultima scia di una idea folle e velleitaria come il Fulmine Rotolante.

Quello che ci rimane invece è la sensazione di essere stati imbrogliati, defraudati di una storia bella, raccontata male chissà per quale motivo, chissà per quale folle necessità di assecondare il racconto personale di una leggenda vivente, vero, ma che può essere contraddetta, può essere messa in discussione.

Il limite di Dylan è di essere diventato prevedibile nella sua imprevedibilità, al punto che i fan – quelli che una volta lo fischiavano perché non era quello che volevano loro – ormai sono arrivati ad accettare tutto, a giustificare tutto, a prendere per buono qualsiasi calcio tra i denti che Dylan fa a loro. Il che non li rende migliori di quel ragazzo che qualche decennio fa urlava “Judas” dagli spalti.