Raffaele Alberto Ventura - Teoria della classe disagiata

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Casa editrice: Minimum fax

Edizione: 2017

Pagine: 262

I tempi cambiano, il vento tira in un’altra direzione e con esso anche noi non abbiamo altra scelta che assecondare in parte il flusso, cercando di opporci alle folate troppo intense con i mezzi a nostra disposizione. È di questo vento che percepiamo sulla nostra pelle e del vento del passato che parla Raffaele Alberto Ventura nel suo libro Teoria della classe disagiata ed è di questo libro che oggi voglio parlare a tutti voi.

È un libro complicato se letto con attenzione considerando il fatto che per arrivare alla versione finale, oggi pubblicata da Minimum Fax, ha richiesto all’autore dieci anni di ritocchi e revisioni. Per questo, ma soprattutto per le approfondite riflessioni che l’autore ha elaborato a partire da un’ampia ricerca bibliografica, personalmente reputo questo libro degno di un’attenta analisi da parte del lettore, a prescindere se ci si trovi d’accordo o meno con i pensieri espressi al suo interno.

Il libro affronta svariate tematiche mostrando tuttavia un comune filo conduttore rappresentato dalla condizione esistenziale degli attuali neolaureati e da una richiesta di trasparenza sulle vere possibilità lavorative e realizzative che uno studente universitario avrà una volta terminato il suo percorso di studi. A partire da questo punto il pensiero dell’autore si snoda in un’ampia ragnatela di riflessioni;  come ad esempio il ruolo della cultura, del prestigio e dei beni posizionali, il ruolo di teorie macro e microeconomiche fino ad arrivare alla condizione di essere figlio di una classe media scaturita dal boom economico post guerra ora succube della crisi, ma che cerca disperatamente di tenersi aggrappata al treno del successo.

Se ci troviamo in questa condizione di precarietà, nonostante la promessa di poterci mantenere all’interno di una specifica classe sociale, vuol dire che l’investimento culturale non ha sortito l’effetto sperato. Potremmo dirci che forse è perché non siamo bravi abbastanza, ma forse non c’è semplicemente posto per tutti e questo non vale solo per le materie umanistiche ma anche per avvocati, architetti e ingegneri che devono fare conto con i “lavoretti precari e sottopagati”. Quello che ci diciamo è che tutta la cultura accumulata con lo studio è senza dubbio un bene in sé che ci rende migliore di altri e ci dà la possibilità di elevarci ad un rango superiore della società pretendendo ruoli di spicco e rendendoci al contempo perennemente insoddisfatti.

L’autore continua dicendo che la cultura è anche una condanna perché produce una sorta di assuefazione, fascio di bisogni, abitudini, mancanze, perché il fatto che non ci sia posto in certi settori non implica che non ci sia posto in assoluto. Il difficile semmai è fare qualcos’altro rispetto a quello che siamo stati educati a fare, il difficile è riconoscere se stessi in quello che facciamo nella nostra vita. Quante volte abbiamo detto o sentito “io a fare il commesso o al call center non ci vado” però, fateci caso, questi sono giudizi di classe. Il problema è che l’identità di classe, in fondo, è più radicata di quanto sembri. Quella che viene descritta è la condizione di quella che l’autore chiama la classe disagiata; cioè noi siamo i figli di una classe che fu relativamente agiata ovvero che ha potuto investire delle risorse nell’ inserimento professionale e che oggi crolla sotto il peso delle sue aspirazioni. Una classe che non potendo accettare che non c’è più posto per tutti, che non c’è più posto per lei in quanto classe, reagisce in maniera disordinata ed autodistruttiva.

Non a caso l’autore ci dice che “la cultura è, come ci insegna la sociologia, un consumo vistoso, una forma di esibizionismo, che ha una funzione precisamente posizionale, mostra dove siamo o dove vorremmo essere nella società”. Appare quindi corretto parlare di una “disforia di classe” per descrivere la condizione dei figli del ceto medio cresciuti come borghesi nella propria testa, ma sempre più impoveriti nel portafogli. E questa è una forma di disordine sociale che produce disagio.

Il problema della classe disagiata non è la povertà, quella che stiamo vivendo è una crisi di sovraccumulazione come quella che visse la Repubblica di Venezia al termine del suo splendore. Troppe risorse, molte opportunità illusorie, poche quelle reali. Sappiamo che le risorse patrimoniali delle famiglie italiane sono particolarmente solide, eppure quelle che scarseggiano sono le opportunità. Chi può permetterselo mobilita tutte le sue risorse per posizionarsi sul mercato del lavoro in modo da evitare ad ogni costo la minaccia del declassamento. Ha ragione l’autore quando dice che “siamo troppo ricchi per rinunciare alle nostre aspirazioni e troppo poveri per realizzarle”. Ognuno insegue queste poche opportunità spendendo sempre più tempo e denaro, cosa che forse è razionale individualmente ma che è anche causa di un enorme spreco collettivo di risorse. “La classe disagiata è impegnata in una tragica corsa al ribasso che si può permettere soltanto erodendo le sue riserve patrimoniali, una guerra di logoramento, un’escalation simile a quella delle potenze atomiche durante la guerra fredda. La minaccia che grava su di noi, incapaci di adottare una strategia cooperativa è quella di un altrettanto mutuo declassamento assicurato. Questo disordine economico produce soprattutto disagio attraverso un terribile scarto tra aspirazioni e realtà… Il male è nel mondo, nella maniera in cui diverge dalle nostre attese”.

La visione di Ventura è, in conclusione, una critica profonda a tutto quello che stiamo vivendo ma anche un memorandum costruttivo sul fatto che non dobbiamo sorprenderci della condizione attuale, dato che la si è raggiunta attraverso un indebitamento dal quale siamo sempre più dipendenti. Il debito, come dice l’autore, non è altro che l’immagine rovesciata delle nostre aspirazioni deluse, l’altissimo costo che paghiamo per continuare a ostentare una ricchezza che non abbiamo.

Che questa sia per tutti voi Amletici un’opportunità di riflessione o per lo meno un punto di vista differente su quanto sta accadendo all’interno della società che tutti noi condividiamo in apparente armonia e non dimenticate che la storia la scrivono i sopravvissuti, ma la loro testimonianza ha un valore statistico pressoché nullo.

“Se un’ipotetica società ripartisce la ricchezza in funzione dei risultati a una corsa, il più veloce avrà un guadagno superiore a quello del più lento. Ma questo non implica che correndo si sia creata della ricchezza, né che correndo tutti più veloce si possa influire sulla ricchezza complessiva. Al contrario, saremo soltanto tutti più stanchi”.

Gradimento Autore: 8.5/10

Gradimento Amletico*: 8.26/10

*Media tra gradimento del pubblico, critica e autore

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