L'Amletico

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Il fascino genderless di Damiano dei Maneskin in “I am Icon” di Salvatore Marsillo: “Una nuova generazione di simboli”

Fino al 30 settembre nell’ambito di ArTotem, promossa dalla galleria Cosarte, l’arte diventa itinerante a Garbatella.

Tra gli artisti partecipanti Salvatore Marsillo e l’inedita icona pop di Damiano David. In questa intervista esclusiva a L’Amletico, l’artista romano riflette sul ruolo dell’arte nel post-pandemia, sulle sue ispirazioni (non solo a livello artistico) e perché crede sia arrivato il tempo di dare una nuova faccia alle icone contemporanee.


L’arte e il pubblico tornano alle gallerie: che presenterai di nuovo nella mostra ArTotem?

A questa mostra partecipo con tre opere appartenenti alla serie “I am Icon”. Sono tre immagini digitali stampate su tela e dipinte ad acrilico, raffiguranti Damiano David, il cantante dei Måneskin. Per spiegare il motivo di questa scelta devo partire da una riflessione fatta recentemente. Dopo gli avvenimenti degli ultimi anni (prima la pandemia, ora la guerra in Ucraina) siamo arrivati a uno spartiacque storico che impone radicali cambiamenti: a partire dalle scelte e dalle abitudini quotidiane. Risparmio delle risorse energetiche e ricerca di alternative ecosostenibili sono istanze sempre più impellenti. Anche in campo artistico credo sia arrivato il momento di girare pagina per aprirci a nuove prospettive. In particolare il patrimonio iconografico precedente, per quanto meraviglioso, mi appare obsoleto, un coacervo di immagini superate, emblema di un mondo che non c’è più. Occorre ora fare strada a una nuova generazione di icone che siano espressione del sentiment dei nostri tempi, che siano portatrici di messaggi positivi come empatia, comprensione, rispetto e inclusività. Oppure che, dal punto di vista estetico, rispettino canoni non necessariamente binari. Ho individuato alcuni personaggi che rientrano perfettamente nell’identikit: Keanu Reeves, Tilda Swinton e, appunto, Damiano David. Di esempi della nobiltà d’animo di Keanu ne è pieno il web, e del fascino genderless di Tilda abbiamo avuto prova anche al recente Festival del Cinema di Venezia. Infine Damiano che, con l’impegno sociale e politico dimostrato in numerose circostanze, rappresenta una ventata di aria nuova contro ogni intolleranza.

Impieghi diverse tecniche nelle tue arti. Ad esempio, con la sabbia, come funziona?

L’utilizzo della sabbia nella realizzazione di un quadro mi ha sempre affascinato per la sua capacità di creare sulla superficie della tela una texture increspata e materica che trattiene la luce e accentua l’intensità del risultato finale. Non a caso ho usato questo materiale per i quadri rientranti in due serie – Stigmata e Il Piacere –, entrambe caratterizzate da forti connotazioni esistenziali che siano di tormento o estasi. Per prima cosa parto dal disegno a carboncino sulla tela. Poi, con un pennello, stendo uno strato sottile di un amalgama realizzato con sabbia, colla vinilica e cementite. Una volta asciugato, il disegno riaffiora sulla superficie ed è pronto per essere dipinto. Durante la fase di colorazione, per creare effetti tattili e tridimensionali, applico a più riprese altri strati di questo composto, mescolato col pigmento. A volte aggiungo anche polvere di quarzo per ottenere riflessi più luminosi.

"Harriet!" è un'opera molto interessante. Come l'hai realizzata? 

Quest’opera nasce dall’incontro tra mia arte e un’altra grande passione: il cinema, soprattutto quello dei grandi maestri europei del passato. Un giorno, guadando il film “Sussurri e grida” di Ingmar Bergman, sono rimasto folgorato dall’intensità del volto dell’attrice protagonista, Harriet Andersson, e meccanicamente mi sono messo a fotografare lo schermo per catturare alcuni suoi primi piani. Tra i tanti scatti ho scelto quello che mi ha colpito di più e, seguendo un’intuizione, l’ho sovrapposto tramite Photoshop alla foto di un velo ricamato a mano da mia nonna. Ne è scaturita un’immagine dell’attrice molto frammentata, una sorta di opus tassellatum, che ho successivamente elaborato al computer alterando i colori fino a creare effetti fluo e soft focus. La scomposizione della figura in una miriade di tessere simboleggia l’incapacità di cogliere la verità dell’altro, non perché questa – pirandellianamente – non esista, ma perché, in virtù della sua frammentazione, sfugge in primis allo stesso individuo e, a maggior ragione, a chi lo circonda.



Che ruolo c'è l'arte nel post-pandemia?

La pandemia e la guerra in corso, come accennavo prima, stanno irreversibilmente cambiando il nostro mondo e le prospettive per il futuro. A mio parere il ruolo dell’arte in questa epoca storica è quello di mettere in moto un rinnovamento generalizzato, diventando portabandiera di nuove esigenze e nuove istanze, tutte urgenti e improcrastinabili. Semplificazione, downgrade, abbandono di una visione consumistica della vita che genera bisogni fittizi. Nel campo specifico dell’arte mi piacerebbe che venissero spazzati via la finanza, che riduce l’arte a mero investimento, e il superpotere di quei critici che, con giri di parole, compensano la mancanza di contenuti. Vorrei un’arte libera, sganciata da interessi economici e usufruibile da tutti. Nel mio mondo ideale dovrebbero essere diffuse forme di sovvenzioni sia pubbliche sia private a supporto degli artisti, la cui funzione verrebbe finalmente riconosciuta come fondamentale per la collettività. In questo modo, l’arte sarebbe veramente accessibile a tutti e, auspicabilmente, gratuita.

Qual è la meta dell'espressione artistica umana?

Non tutte le forme di espressione della creatività umana vanno nella stessa direzione. L’obiettivo di molti artisti è di interrogarsi davanti alla realtà visibile e scoprirne il senso profondo e la bellezza, ma anche le contraddizioni e le distonie per poi esprimere il proprio percepito attraverso un linguaggio di forme e colori oppure attraverso manifestazioni di arte performativa o multimediale. Stimo molto quegli artisti che, prendendo spunto da ciò che vedono al di fuori di se stessi, denunciano situazioni di ingiustizia; basti pensare a Marina Abramović che con la performance “Balkan Baroque”, presentata alla Biennale di Venezia del 1997, ha stigmatizzato gli orrori della guerra nei Balcani; oppure all’artista dissidente cinese Ai Weiwei, che nel 2016 ha collocato ventidue gommoni sulla facciata di Palazzo Stozzi a Firenze per richiamare l’attenzione internazionale sulla irrisolta questione dei migranti.

Esistono poi artisti che attraverso le loro opere intendono realizzare una poetizzazione/sublimazione delle emozioni e delle esperienze vissute. Appartengo a questa seconda categoria, in particolare la mia espressione artistica scaturisce da una continua introspezione, da uno scandaglio interiore che culmina in atto creativo inteso come catarsi e meta ultima. Per questo la mia produzione si divide in varie serie, ognuna delle quali fotografa uno step preciso del mio viaggio esistenziale. Un percorso iniziato con gli “Arcipelaghi delle differenze”, un gruppo di opere elaborate in un periodo in cui ero alla ricerca del mio “io”, delle mie aspirazioni e di tutto ciò che mi avrebbe permesso di emergere come isola nell’indistinto oceano dell’umanità; terminata la ricerca è iniziata la serie del “Labirinto dell’irrequietezza” che simboleggia le difficoltà per realizzare concretamente le aspirazioni emerse nella fase precedente. Le serie successive – delle Foreste nascenti e della Plenitude – ne rappresentano rispettivamente le prime forme di attuazione e la piena realizzazione. Attualmente sto proseguendo il mio viaggio su due binari: da una parte sto concependo le “Stanze segrete”, opere rientranti sempre nel filone intimista; dall’altra mi sto aprendo a ciò che accade fuori e da questa nuova intuizione è nata la serie “I am Icon”.