Giselle del Balletto di Roma: vita e morte tra antico e moderno

Teste che roteano, pugni che sbattono, piedi che strisciano. Non è il classico balletto a cui si è abituati, ma una versione in cui di Giselle compare l’intima essenza, riprodotta attraverso l’improvvisazione dei movimenti e la fissità degli sguardi. Della giovane contadina che muore dopo aver scoperto l’inganno del principe che amava, non rimangono che vaghi riferimenti, in una rappresentazione dove ogni ballerino incarna la protagonista, divisa in più parti perché ognuno possa interpretarne e mostrarne le varie nuances.

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A cambiare non è solo l’impianto narrativo, ma anche le musiche: quelle scritte da Adolphe Adam alternano ritmi classici a suoni elettronici, creando una dimensione al confine tra antico e moderno. Una situazione ricercata dai due coreografi Itamar Serussi Sahar e Chris Haring, che firmano altrettanti atti. Nel primo emerge la fisicità in maniera preponderante. I corpi dei ballerini si scontrano, si contorcono, si avvicinano per poi lanciare fuori dal gruppo – a turno – uno di loro. Uno sparo scandisce questo passaggio verso la morte, che arriva inesorabile alla fine dell’atto, quando i ballerini si spogliano della vita e delle loro vesti, lasciando la loro pelle sul palco. Nel secondo atto sono lunghi e potenti attraversamenti a dominare la scena. I danzatori, percossi da un viscerale scuotimento del busto, si muovono in modo sinuoso e alieno, rappresentando idealmente le villi, gli spiriti femminili che custodiscono la tomba di Giselle e che accompagnano chi ha il coraggio di avvicinarsi verso la sua fine.

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Di Giselle ci saranno anche poche tracce e vaghi riferimenti, ma lo sforzo dei corpi e l’intensità delle azioni spostano l’attenzione su di un piano dove la vera narrazione è nell’espressione delle emozioni.

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