L'Amletico

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Francesco Spina, una pittura di spirito, carne e ferite

Parafrasando Emil Cioran si potrebbe dire che un’opera d’arte deve frugare nelle ferite, anzi, deve provocarle. Deve essere un pericolo. Se lo “squartatore misericordioso” parlava dei libri, non ci sembra inopportuno dire lo stesso delle opere d’arte e nello specifico della pittura.

Di ferite, lacerazioni, sbreghi, grida e dolori parlano le opere di Francesco Spina, artista e storico dell’arte, che ha deciso di lasciare la sua prima intervista a noi de L’Amletico.

Andiamo a conoscere il suo lavoro artistico e le sue idee sull’arte e la pittura.

 

Cominciamo dalla tua doppia essenza di artista e studioso, di creatore e storico. Quale ti appartiene di più?

 

In verità, non credo di essermi ancora meritato nessuna delle due qualifiche e in genere preferisco la parola pittore a quella di artista.

Volentieri mi definirei un artigiano. Si può esserlo nel fare storia come nella pittura. L’ansia è quella di chi sente di dover recuperare una formazione da autodidatta, alla quale siamo troppo spesso costretti; sia dentro che fuori l’accademia.

Comunque, queste due dimensioni in me convivono e si influenzano a vicenda.


Quando e come ti sei avvicinato alla pittura?

Credo un po' per natura e un po’ per ambiente. In famiglia non si parlava granché di arte e i miei, nonostante fossero persone colte, non curavano questo interesse. Ma sono nato a Roma, nel cosiddetto museo diffuso e mio padre mi portava la domenica a messa a S. Maria Maggiore. Ricordo l’impressione che mi facevano i marmi e le espressioni di alcune immagini. Poi disegnavo tutti i giorni. Ed era un gioco.

 

Per te l’atto del dipingere è ricreativo, costruttivo, lenitivo o liberatorio?

È sempre un atto costruttivo. Legato a una dimensione spirituale che sento di dover coltivare.

È una ricerca, innanzitutto, e poi un lavoro, nel senso nobile della parola che oggi si tende a dimenticare. È il lavoro della coscienza accanto a quello delle mani.

Non saprei dire se questo mi liberi da qualcosa. La ricerca spirituale esalta la libertà, in effetti. Ma tutt’ora, gli stimoli che riceviamo dal mondo e ai quali siamo esposti sin da piccoli, mi portano a vivere questa dimensione con un certo complesso di colpa, dal quale è difficile sentirsi pienamente liberi.

 

Utilizzi anche il medium della scultura, con quale mezzo di espressione artistica ti senti più a tuo agio?

 

Ho sempre creduto di essere più portato per il senso della forma che per quello del colore.

Ma la vita e gli strumenti a disposizione mi hanno permesso un più facile approdo alla pittura, cosa che ha condizionato la mia formazione.

Poi, da autodidatta quale sono, posso assicurarti che la ricerca di una qualità che personalmente ritengo un impegno imprescindibile, mi obbliga tutt’ora ad impiegare gran parte delle mie energie su quest’unico medium. Certo il percorso non è finito.

 

Eremiti, santi, composizioni sacre reinterpretate, c’è una grande coerenza tematica nelle tue opere; come scegli i soggetti che raffiguri?

 

Ci sono alcuni temi ricorrenti nelle mie opere, me ne rendo conto anche se non li predispongo con ragione. Sono il mistero della morte e quello del male che chiama in causa il problema della libertà.

Ero giovane quando fui colpito dal pensiero dell’insensatezza della vita innanzi all’annullamento della morte. E poi la libertà. La consapevolezza di trovarti ogni momento di fronte ad un bivio. Alla possibilità di credere al male in te o al male in sé.

È la condizione tragica dell’uomo, beninteso. Sono cose che tutti noi sappiamo ma che scegliamo di non vedere, per poter vivere. Lo faccio anch’io ovviamente. Nessuno crede davvero alla propria morte e a stento si interroga su quella dei propri cari. La cultura e la società di oggi non ci danno i mezzi per affrontare questi misteri. Siamo costretti ad essere autodidatti anche in questo.

I miei soggetti nascono spesso da queste riflessioni, da questa ricerca e da queste paure. Il linguaggio, i simboli, le iconografie che scelgo e utilizzo in piena libertà sono quelle della grande arte mediterranea ed europea. Non si parla una lingua straniera in casa propria, se si vuole essere compresi.

 

La figura dell’uomo urlante o inquieto ricorre nelle tue opere; è metafora di qualcosa in particolare e proiezione di stati d’animo personali o più semplicemente citazione di alcune opere del Seicento (da Caravaggio a Bernini)?

 

È la proiezione di una tragedia di cui credo sia permeata tutta l’esistenza, in un’eterna dialettica di kaos e logos, dove sarà la verità a prevalere ma a costo di molti caduti e di grandi sofferenze.

 

Quanto influiscono i tuoi studi nelle opere che realizzi?

 

Moltissimo. Nell’accademia cerco di apprendere e praticare un mestiere e una specializzazione, finché sarà possibile. Ma è un peccato originale dal quale sento di dovermi emendare con una ricerca intellettuale libera.

Non inseguo la novità, lo scandalo o altre illusioni, piuttosto ambisco a riallacciarmi ad un discorso che è quello portato avanti già dai nostri padri e in tutte le generazioni, utilizzando immagini che attingano da un patrimonio comune e parlino alla ragione, come all’incoscienza.

È l’identità non la novità ad essere moneta rara in circolazione.

 

Possiamo definire i tuoi quadri come opere d’arte sacra? Che valore ha per te il sacro e quale pensi sia il suo ruolo nella nostra società odierna?

 

Sacrum è ovunque; ciò che manca è piuttosto religio. Qualcosa che ci unisca tutti in una ricerca comune, verso ciò che è più alto di noi.

Ma anche nella nostra epoca individualizzata, l’uomo avverte sempre di essere chiamato a qualcosa di più grande di lui.

‘Bellezza’, ‘bene’ e ‘verità’ ci chiamano a sentirci sacrificabili.

Innanzi alla Pietà di Michelangelo sentiamo di trovarci di fronte a qualcosa per cui siamo noi a dover essere degni di lei e non il contrario. Cade ogni dimensione dell’utilità e del consumo.

L’uomo è l’unico animale portato a dover superare la propria determinazione biologica per salvaguardare ciò che è più grande di lui. È una dimensione spirituale, certamente, ma non necessariamente religiosa. L’ateo ne è coinvolto quanto il fedele.

In tal senso, mi sento fiducioso. Viviamo un’età di mezzo, con tutte le contraddizioni che questo comporta, ma la persona umana rimane tale. La più splendida aporia dell’universo.

Io ricerco il sacro, dunque, forse nelle mie opere ne parlo, ma questo non fa di loro necessariamente arte sacra, nella misura in cui non credo ne siano ancora degne. Piuttosto credo sia l’atto creativo ad essere ricerca spirituale. È il lavoro di una coscienza infinita e immortale.

Si dispongono i colori sulla tela con un ordine per nulla manifesto. Non si tratta che di materia apparentemente informe, come la nostra carne. Ma ai nostri occhi quel volto dipinto si anima, ci interroga, è vivo. Ad una materia bruta si aggiunge una scintilla che solo la nostra intelligenza può disporre alla vita. Certo potrei interpretare quell’unto disordine di pigmenti per quello che in effetti è. Nient’altro che questo. Allo stesso modo potrei guardare ad un uomo e vederne solo la materia rozza, la polpa, il sangue. È una scelta. Bisogna scegliere cosa vedere.

Penso sia questo a legare l’opera umana a quella divina.

 

Hai dipinto una donna crocifissa con un realismo molto forte e crudo. Vuole essere una provocazione, una boutade o una denuncia?

 

Anche Hyeronimus Bosch ne ha dipinta una nel Trittico della martire crocifissa. È S. Liberata martire del VII secolo, nota come Wilgefortis (Virgo fortis), a cui il motto paolino che ho scritto sul braccio della croce vuole riferirsi (Nam virtus in infirmitate perficitur).

L’unica boutade potrebbe essere nel fatto che un’iconografia antichissima come questa, nel caso del dipinto di Bosch poteva trovare posto all’interno dell’antico Palazzo Ducale di Venezia. Oggi, nell’epoca delle vacche sezionate ed esposte al pubblico, sarebbe considerata forse poco consona al Palazzo del Quirinale, qualora a dipingerla fosse un pittore con la colpa di essere ancora in vita.

I corpi sono campi di battaglia e in particolare il corpo della donna troppo spesso offeso e sacrificato. Ma non intendo agganciarmi ad un femminismo d’antan, quanto piuttosto proporre una riflessione sulla libertà. In quell’opera parlo del diritto ad essere fragili e non sempre forti e vincitori. Liberi dall’impostura del merito e dell’eccellenza. Degni della vita anche se non inclusi tra i migliori.

La virtù si esalta ancora di più nella fragilità. E questo ci riguarda tutti, sia uomini che donne.

Virtus in infirmitate

Alcuni tuoi quadri si configurano come allegorie più o meno complesse, spesso corredate da iscrizioni in latino. In un tempo in cui le immagini si consumano con voracità e disattenzione, pensi sia un modo per restituire dignità e complessità all’immagine dipinta?

 

Il web pullula di video nei quali si vede l’artista all’opera. È un tema di interesse comune dal Novecento in poi. Proprio nel momento in cui decadeva il senso del mestiere, si esaltavano i semplici gesti dell’artista di turno, quasi fossimo in presenza di un rito religioso.

Se il pittore è divenuto a tutti gli effetti un artista, legato ad una dimensione colta e intellettuale, mi sorprende questo interesse per l’opus, per l’artificio ormai squalificato. Se l’atelier è il luogo del genio, dove si celebra una liturgia preclusa ai comuni mortali, allora non vedo come questa possa essere consumata al pari di uno spettacolo qualsiasi. Al contrario, sbarrata la soglia, l’artista dovrebbe mettersi all’opera di spalle, come nel rito tridentino. Questo restituirebbe il senso del mistero, seppure ci sia.

Ad ogni modo, quando si ricerca con onestà una dimensione più elevata del proprio lavoro, non c’è nulla da temere. Anche entrando nel vortice del consumo e del mercato – che non fu certo estraneo agli artisti del passato – sono sempre io a cambiare l’ambiente che mi circonda e non il contrario.

D'altronde ciò che è bello è molto spesso immune dalla voracità del consumo. Un bel edificio è quasi sempre preservato e se cessa di avere la sua funzione ne trova subito un’altra.

Quindi ricerco la bellezza secondo i miei mezzi e lo faccio con la dovuta lentezza. Non mi interrogo più di tanto sulla sorte delle mie opere. Siano pure consumate con disattenzione. Se ne saranno all’altezza, cambieranno loro l’ambiente che le circonda.

Intanto lascio il pensiero alle sue pretese e preferisco assecondare l’artigiano che è in me. Lui prova soddisfazione negli strumenti e nel lavoro manuale.

Ma la bottega resta chiusa agli sconosciuti e il mestiere si ruba con gli occhi.

 

Nelle tue opere non c’è quasi mai uno spazio definito. Il tuo è uno spazio “forse vuoto forse popolato di esseri invisibili, forse nudo forse vestito di Dio, uno spazio che il colore strano non permette di chiamare, se non in senso profondamente interiore, cielo” per dirla con Guido Ceronetti. Che valore hanno questi spazi atemporali nei tuoi dipinti?

 

È una domanda molto bella questa che mi fai, con le parole del sommo Ceronetti.

Forse quest’assenza di spazio, mio malgrado, è l’unica concessione che faccio ad un’estetica di tipo medievale che ritengo sostanzialmente superiore ad ogni altra, perché totalmente autentica.

Lo spazio dell’icona medievale è realmente colmato da Dio; quello di Giotto è costruito per essere abitato dall’artista e dal suo ego. In questo, credo di trovarmi d’accordo – nel mio piccolo – con Pavel Florenskij.

Poi, certo, sono figlio del mio tempo e non sono un prete. Quindi non mi trovo esente da autocelebrazioni e cerco il divertimento anche nel dipingere, assecondando il talento, il quale ammira l’XIo secolo, ma gioisce nel XVIIo.

D’altronde, un’arte medievale in assenza di Medioevo sarebbe posticcia e infame.

Lo spazio è una gabbia per il corpo dell’uomo, alla cui gloria dovrebbe consacrarsi l’arte di ogni tempo. È il corpo che esprime e parla, nella piena libertà da ogni prospettiva.

Lo spazio – almeno nella mia pittura – ha senso solo se inserito in un discorso; altrimenti allontana ancora di più da quell’ardua meta del sacro di cui parlavamo.

In memoriam

 

Verso dove tendono i tuoi interessi di studioso?

 

Sono un filofrancese fanatico. L’interesse per la storiografia d’oltralpe, mi viene dalla lettura dei grandi: da Bloch a Braudel. A questo ho cercato di accompagnare un approccio diretto alle fonti storiche: vere e proprie finestre aperte su mondi totalmente altri da noi.

Personalmente mi occupo soprattutto di ordini religiosi in epoca post-tridentina e ho una predilezione per l’iconologia ed il risarcimento del perduto.

L’ambizione è quella di avere, un giorno, abbastanza libertà nella ricerca da poter abbandonare studi troppo settoriali e percorrere la storia dell’arte come uno dei molti campi di un più vasto soggetto di studio che è l’uomo. Questo mi appassiona. Usare le fonti storiche – opere d’arte comprese – alla stregua di un antropologo che interroga una cultura diversa dalla sua.

Certo, la strada è lunga. D'altronde è avvenuto tutto per caso. Di fatto, mi sono iscritto a Lettere perché non avevo il coraggio di andare all’Accademia di belle arti. Ma ho avuto la fortuna di incontrare maestri generosi che mi hanno trasmesso molto e di questo sono grato.

È andata molto meglio così. Ora posso dirlo.

 

E quelli da pittore? Chi sono gli artisti a cui ti ispiri e con i quali ti poni in dialogo?

 

Potrei risponderti con dei nomi poco legati alla pittura ma che ritengo le fondamenta della mia formazione: Bach, Goethe, Dumas, Montale, Kavafis, De Andrè e via intellettualeggiando. Ma non saprei quanto tali esempi ispirino la mia pittura. Probabilmente nulla resta senza frutto.

In arte prediligo l’identità. Ciò che rende un artista subito riconoscibile tra gli altri. Personalità come quella di Goya, Rubens, Michelangelo e via sciorinando, indubbiamente lo sono.

 

Senza avventurarci in paragoni ingombranti, credo si possa facilmente convenire sul fatto che le tue opere ricordino la pittura caravaggesca mista a certi idiomi figurativi fiamminghi, ponendosi al contempo in scia con autori contemporanei come Roberto Ferri e Nicola Samorì. Ti ritrovi in queste coordinate estetiche?

 

Non posso ritrovarmici perché davvero hai nominato dei pittori eccellenti, verso i quali ho il massimo della riverenza e del rispetto. Troppa strada devo fare anche solo per mettermi nella loro sequela. Strada che intendo percorrere se mi sarà possibile.

Ad ogni modo non cerco modelli. Per gli studi ed il lavoro che faccio ho incamerato un grande bagaglio di immagini nella mia mente. Mi accorgo che queste scaturiscono spesso in piena libertà, quasi in modo istintuale. Quando dipingo mi capita di rivedere parvenze conosciute, tradotte sulla tela ma emerse dalla memoria.

Mi ha sorpreso il tuo riferimento ai fiamminghi che accolgo con gratitudine perché è un linguaggio che amo indubbiamente, ma che non credevo mi avesse più di tanto influenzato.

Getsemani



Che rapporto hai con le opere che metti al mondo, con l’oggetto pittorico o scultoreo?

 

Ho un rapporto spesso travagliato con la mia opera. Dopo averla gettata con relativa velocità la lavoro a lungo, tornandoci sopra anche dopo anni, a volte depauperandola della sua immediatezza o addirittura rovinandola, come il pittore Frenhofer nel racconto di Balzac (“Il capolavoro sconosciuto” ndr).

Si può dire che i miei quadri non siano mai del tutto al sicuro finché rimangono con me.

Poi, finalmente, arriva il momento in cui me ne dimentico. A quel punto non me ne curo più, l’opera è autonoma e non ne sono più il responsabile.

 

“Dipingere è uscire da se stessi, dimenticare se stessi, preferire l’anonimato a ogni cosa e rischiare talvolta di non essere in accordo con il proprio secolo e con i contemporanei.”  Così scriveva Balthus, grande pittore francese dallo spiccato gusto classico. Ti senti anche tu poco in accordo con i tuoi contemporanei e con il tuo secolo, dipingendo all’incirca come facevano i pittori quattro secoli fa?

 

Forse sì! Come potrei dare torto all’amato Balthus.

Ma forse viviamo tutti in un eterno e sempre più ricco presente. Quando mi trovo innanzi a un’opera di Raffello, essa è viva al nostro tempo come lo sono io. Non mi illudo di capirla per ciò che fu, ma sento che comunica con me per ciò che sono. Tutta l’arte è contemporanea.

 

Come mai, pur dipingendo e scolpendo da molti anni, hai deciso di uscire allo scoperto solo ora?

 

Per paura, sono sincero. Paura del giudizio altrui innanzi tutto e per un senso di colpa latente. Il mondo ci educa ad una retorica della produttività e dell’utilità che allontana la libertà dell’arte.

Ho provato più volte a programmare una timida uscita ma qualche meccanismo psicologico mi ha sempre fermato. Vedremo se questa sarà la volta buona.

 

Stai preparando una tua prima mostra?

Mi sto muovendo in tal senso, in effetti. Ho un primo nucleo di sei opere che vorrei esporre. Credo sia il momento.